"In saecula saeculorum" ovvero della poesia eternatrice

Il desiderio di eternità è connaturato all'uomo: la coscienza di essere destinati ad una fine è il motore della perpetuazione della specie, ma l'essere umano, che non accetta di essere ricordato puramente a livello biologico (perché questo lo avvicinerebbe più agli animali che alla divinità cui tende), ha fin dall'antichità cercato un modo per affermarsi a scapito dello scorrere del tempo.
Da questa singolare attitudine nasce uno specifico tema letterario, che va comunemente sotto la definizione di 'poesia eternatrice'. Fonte di tale produzione è il desiderio dell'autore di essere ricordato in eterno, di consegnare una precisa immagine di sé ai posteri attraverso le proprie parole, espresse in versi di eco infinita.

Raffaello, Il Parnaso (1510-1511), Stanze Vaticane - Stanza della Segnatura. Apollo vi è raffigurato con le Muse e i poeti

A ben guardare, però, la poesia eternatrice nasce all'interno dell'epos omerico, e se ne trova il lietmotiv non nelle affermazioni autoreferenziali dei misteriosi autori del ciclo arcaico, bensì nelle parole dei personaggi che lo animano.
È Elena, la bellissima regina di Sparta, a farci presente la forma di immortalità che deriva dalla poesia: nel momento stesso in cui, come casus belli, innesca il meccanismo del poema, ne ribadisce anche le funzioni. Nel sesto libro dell'Iliade (vv. 344-358), infatti, ella deplora il proprio tradimento, fonte di tanto dolore per i Troiani, e l'atteggiamento vile di Paride, invitando Ettore a distogliere i propri pensieri dalla guerra in corso:

«Cognato mio, d'una cagna maligna, agghiacciante,
ah m'avesse quel giorno, quando la madre mi fece,
afferrato e travolto un turbine orrendo di vento,
sopra il monte o tra il flutto del fragoroso mare;
e il flutto m'avesse spazzato, prima che queste cose accadessero...
Ma dopo che gli dei fissarono così questi mali,
avrei voluto essere almeno sposa d'un uomo più forte,
che fosse sensibile alla vendetta, ai molti affronti degli uomini.
Costui non ha ora cuor saldo e neanche lo avrà
certo mai; e temo che ne mieterà il frutto.
Ma tu vieni qui, ora, siediti in questo seggio,
cognato, ché molti travagli intorno al cuore ti vennero
per colpa mia, della cagna, e per la follia d'Alessandro,
ai quali diede Zeus la mala sorte. E anche in futuro
noi saremo cantati fra gli uomini che verranno...»
[Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti]

La menzione della fama eterna assicurata ai protagonisti dello scontro epocale che stanno vivendo è per la regina di Sparta, ma anche per il luminoso Achille, che ha barattato una lunga ma anonima esistenza con una vita breve ma gloriosa, una sufficiente ricompensa delle sofferenze, un appagamento che supererà le loro vite e le consacrerà al ricordo eterno.
Lo scenario cambia leggermente quando l'autore stesso diventa protagonista del gioco metaletterario (la condizione, cioè, che si verifica quando l'opera presenta menzioni riferite al testo stesso),rappresentando un'auto-investitura poetica che prevede una distribuzione delle parti fra le muse (ispiratrici del canto), l'opera letteraria (tramite materiale della fama) e l'autore stesso (fautore della propria gloria).
Nel frammento 55 di Saffo si legge:

Tu giacerai morta, né più alcuna memoria di te mai resterà in futuro: ché tu non hai parte delle rose della Pieria, ma anche nella casa di Ades vagherai oscura fra le ombre dei morti, sospesa in volo lungi da qui.
[Traduzione di Franco Ferrari]

Il riferimento alle Pierie (le muse) viene qui inserito per opposizione: la poetessa lamenta la sorte di una defunta a noi sconosciuta, che non potrà trovare conforto nella promessa dell'immortalità garantita dai versi, una speranza che, invece, Saffo sembra convinta (e a ragione, dirà la Storia) si possa per lei concretizzare.
Profondo conoscitore della lirica greca, Orazio non manca di dimostrarci la sua fede nelle facoltà eternatrici della poesia. Il terzo e ultimo libro delle Odi, infatti, si chiude con un testo (n° 30) che suona come un vero e proprio congedo, come un avvertimento della fama che le poesie stesse si guadagneranno:

Ho eretto un monumento più eterno del bronzo
e più alto delle regali moli delle piramidi,
che né morso di pioggia né impeto di vento
e un'incalcolabile serie di anni
e la fuga dei tempi potrà demolire.
Non morirò tutto, gran parte
di me sfuggirà a Libitinia e crescerò nel futuro
di gloria sempre rinascente, finché salga
al Campidoglio un pontefice con la tacita vergine.
Si dirà, dove strepita l'Ofanto violento
e dove Dauno scarso d'acqua regnò su genti agresti,
di me che divenni da umile potente
trasferendo per primo il canto eolico
nei metri italici. Sii fiera, o Musa, lo meriti,
e cingi di buon grado la mia chioma
con l'alloro di Delfi.
[Traduzione di Carlo Carena]

«Non omnis moriar» (v. 6) decreta il poeta latino, con una frase cui nessuna traduzione può prendere giustizia, perché il quell'affermazione di immortalità è condensato un concetto denso e totalizzante, un'espressione che dovrebbe essere finita e consacrata in sé, perché consacrata ne risulta l'attività di un autore fecondo e magnifico.
E come si può dar torto alla convinzione di gloria eterna che deriva dall'attività poetica, se la stessa presentazione di Virgilio a Dante, nel primo canto dell'Inferno (vv. 61-90), si basa su una conoscenza autoriale, sulla presenza di un rapporto letterario fra il vate latino e il suo discepolo fiorentino?

«Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.»

Virgilio si presenta come poeta, citando la sua opera principale, l'Eneide, e Dante lo riconosce come maestro di stile, eternandone la fama. E che dire di Petrarca, ossessionato dal desiderio della fama, dall'incoronazione poetica, dallo slancio di consegnare ai posteri l'Africa, poema che doveva calcare le orme virgiliane, ma che ha avuto, nella fama del poeta, una gloria ben inferiore a quella delle sue inezia, i Rerum vulgarium fragmenta?
L'apoteosi della poesia come mezzo di immortalità, tuttavia, è contenuta nel testo dedicato ai luoghi dei morti da Ugo Foscolo. La quarta e ultima sezione (vv. 213-195) del poemetto Dei Sepolcri, infatti, è dedicata al potere eternante legato alla poesia e alle muse che la ispirano, facendo da custodi dei sepolcri, animandoli di un canto che «vince di mille secoli il silenzio» (v. 234).

Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode Retèe l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte:
nè senno astuto, nè favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
chè alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: E se diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
l’Olimpio; e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troja il dì mortale,
venne; e all’ombre cantò carme amoroso
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
ove al Tidide e di Laerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno;
ma i Penati di Troja avranno stanza
in queste tombe; chè de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
di vedovili lagrime innaffiati.
Proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti
e santamente toccherà l’altare,
proteggete i miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane.

Il poeta di Zante introduce la sua riflessione sulla poesia eternatrice servendosi del mito e riferendosi prima alle vicende di Aiace, poi a quelle della famiglia di Priamo, distrutta dalla guerra. Nell'economia del poemetto, si costruisce una dialettica: se la tomba garantisce, con la sua concretezza materica, il ricordo dei defunti, la poesia si fa testimone di una forma di memoria ancor più duratura. Nella chiusa dei Sepolcri, dunque, assistiamo ad un richiamo (certamente voluto) all'origine stessa del tema della poesia eternatrice: di nuovo le sventure dei mortali, di nuovo le sofferenze della guerra, ma, sopra a tutto ciò, il canto di un 'sacro vate'.

C.M. 

Commenti

  1. Non riesco a immaginare un grande autore dell'antichità che non abbia creduto di durare in eterno ("virum volitare per ora" diceva anche Virgilio: volare da una bocca all'altra). Così come oggi non riescco a immaginare uno scrittore o un poeta che ci creda veramente. Voglio dire col pensiero di una bomba nucleare dietro l'angolo all'eternità mi sa che ci si pensa meno. Visto che hai citato Orazio se mi permetti cito quell'inizio famoso di una sua ode, e la cito in latino, e per chi è interessato indico anche l'accento secondo la lettura metrica per far sentire non solo la bellezza della musica ma come questo senso dell'eternità questi grandi lo sentissero nella grandiosità stessa dei loro versi:

    Odì profànum vòlgus et àrceò.
    favéte lìnguis: càrmina non priùs
    audìta Mùsarùm sacérdos
    virginibùs puerìsque cànto.

    E' appunto una strofa alcaica

    Odio il volgo profano e me ne guardo
    ora tacete: canti mai prima d'ora uditi
    io sacerdote delle Muse
    per le vergini e per i fanciulli canto

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    1. Grazie per la tua citazione! In effetti, credo che il cambiamento nella mentalità dei letterati di oggi si avverta, e che dietro allo svanire del tema della poesia eternatrice ci sia in effetti un diverso modo di guardare al futuro: viviamo nel tempo dell'hic et nunc, non siamo proiettati al domani, ma al consumo immediato.

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  2. Dei Sepolcri! E' forse l'opera meno letta di Foscolo, perché oscurata dalle Ultime lettere. Personalmente è quella che ho amato di più...e con Marzia (aspetta che legga questa parte del post) ne abbiamo parlato a iosa, anche "dileggiandolo" un po'. Credo che Orazio abbia fornito la definizione più consona del suo "lavoro" (perdonami la sciattezza orribile di questo termine, applicato in questo contesto) di poeta quando parla di essere un costruttore di monumenti più duraturi di qualunque materiale. Ponti ed edifici crollano, ma le parole scritte tramandate s'incidono a fondo nei cuori delle generazioni successive. Dante fece diventare eterna Beatrice, e non solo perché ne fece il suo nume tutelare nella Divina Commedia. E noi ci emozioniamo ancora leggendo le vicende di Troia e le peripezie di Ulisse, pur nel nostro mondo di bit e telefoni supertecnologici.

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    1. Chi mi chiama? ;-)
      Forse ho già avuto modo di dirlo: la poesia non mi entusiasma particolarmente.
      Eppure rende davvero immortali: sono arrivata a detestare la Divina Commedia, ma ricordo ancora parecchi versi, soprattutto de l’Inferno. E Saffo? Ormai la sua opera è frammentaria, dovuta spesso a citazioni di altri poeti (se non ricordo male), ma perfino io conosco il suo “giungesti e hai fatto bene – io ti desideravo – e hai refrigerato il mio cuore che ardeva di passione” (forse è impreciso, ma lo ricordo così).
      Foscolo, eh?
      Loredana, se rido ancora un po’ mi si sloga la mandibola. Tengo a precisare che quel giorno non sono spuntata come un fungo non ricordo più dove con i versi finali, ma “All’ombra dei cipressi e nell’urne confortate dal pianto è forse il sonno della morte men duro?” con tanto di voce in crescendo. Senza dimenticare l’iniziale “I diritti degli dei Man siano sempre rispettati” in sordina…
      Orribile! Dopo Ugone, Gassman si sarebbe rivoltato nella tomba (per rimanere in tema), però ci ha fatto ridere parecchio.

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    2. Ragazze, ora voglio saperne di più di questo vostro dialogo ironico sul buon Foscolo! :)
      Concordo con Loredana sulla bellezza del poemetto, che, nel mio caso, ha avuto sempre la precedenza sull'Ortis (anche scolasticamente parlando). Un autore, poi, può piacerci o meno (lo so, giudizio poco tecnico, ma il parere estetico non esula dal mio approccio alle materie artistiche), ma le opere che ancora oggi sono considerate capisaldi testimoniano la grande eco del loro pensiero e della loro stilo... chissà se si potrà dirlo, un giorno, dei nostri contemporanei?!

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    3. E' presto detto. Studiando insieme con Marzia, abbiamo subito scoperto che dissacrare i grandi delle letterature che ci passavano sotto gli occhi era un ottimo modo per impadronirci maggiormente della materia. Sentivamo le persone sotto i ritratti compassati delle antologie, e declamare i loro versi magari avanzando ipotesi strampalate sulla loro genesi, o interpretazioni altrettanto bizzarre sul loro reale significato, ce li faceva amare. E anche ridere, ridere molto. In particolare, la citazione che ti ha riportato prima, è inserita in una scena di ripasso sotto maturità, periodo notoriamente stressante e caldo, anche come tempo atmosferico. Mentre eravamo chine sulle sudate carte (deviazione leopardiana), ripassando versi e concetti fondamentali, Marzia fu ispirata dal nume di Gassman e declamò quei versi. Dopo un secondo di pausa, giù risate epiche. Ma ti assicuro che io non mi scordo quei versi a distanza di venticinque anni, e per le poesie io ho una memoria pessima. Non ho mai avuto trasporto e slancio verso il mondo della poesia, che mi ha sempre messo a disagio. L'unica eccezione è la Divina Commedia e il suo divino scrivere in versi, ma è davvero l'unico caso isolato, almeno per la lingua italiana. Un autore ci piace anche perché muove delle cose in noi, oltre a farsi apprezzare per la chiarezza di espressione.
      I nostri contemporanei? Ah, che domanda terribile. Di primo acchito, sarei portata a rispondere che non ne rimarrà nulla...ma forse sono cieca io e non mi accorgo che abbiamo un nuovo Leopardi intorno. Ecco, mi auguro che sia davvero così, e sia solo un problema mio...altrimenti, per la letteratura italiana si fanno tempi molto cupi.

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    4. a proposito di Leopardi
      m'è venuto in mente quel classico della scultura, il famosissimo "Leopardi fontanato", ma non ricordo perché... Loredana, aiuto!
      (sto ancora sghignazzando)
      I contemporanei? Chi sono costoro?

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    5. Gli aneddoti di studio sono sempre belli da ricordare, grazie di averli condivisi! :)
      p.s. di novelli Leopardi non ne vedo nemmeno io!

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  3. Senza saperlo mi hai appena fatto un grandissimo favore citando Elena. Avevo appena scritto un saggio per il corso che sto seguendo di composition in cui dichiaravo che Elena nell'Illiade ha pochissimo spazio e infatti in nessuno dei passaggi che ho mai letto compariva. Stavo proprio cercado un passaggio in cui lei parlasse!
    Per tornare in tema invece credo che senza una fiducia nella poesia eternatrice i poeti non potrebbero essere tali. La potenza di fare del proprio lavoro arte sarebbe solo distruttiva senza almeno la fiducia in un'eternità.

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    1. Esatto, è una sorta di istinto creativo, uno slancio vitale per superare i limiti del tempo...

      p.s. Non mi vengono ora in mente altri passaggi in cui Elena prende la parola nell'Iliade, ma forse, cercando, qualcosina salta fuori: se mi imbatterò in qualche altro brano, te lo segnalerò volentieri! :)

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  4. Mi hai rammentato questa canzone (nonostante il nome, i nostri hanno radici mediterranee). E anche questa canzone, ispirata dal buon Dante ma musicalmente più energica. Per il resto, un bellissimo post! Delle muse avevo ciarlato anch'io, se ti va puoi fare un salto e partecipare all'annosa questione su quante esse siano! (Lo so, ho scritto un commento pieno di link, che rischia di finire nello spam. Ma questo è un argomento così aperto che mi vengono in mente solo altre connessioni!)

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  5. Ho letto con interesse il post sulle muse: non lo dico a voce troppo alta, ma nelle conclusioni della mia tesina triennale suggerivo di nominare una decima musa per avere una patrona di un genere drammatico molto particolare! In ogni caso, la vulgata esiodea mi sembra la versione più consona e attendibile!

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    1. Ma dai, che bello! Io alla triennale spiegavo come rendere idrorepellente una superficie mediante una tecnologia su cui nessuno ha deciso di investire! :D
      In quest'epoca la musa è qualcosa di molto personale, ma in mancanza di ispirazione è confortante sacrificare qualche zanzara per raccattare i favori di Calliope!

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    2. Magari un giorno ne parlerò più dettagliatamente! :)
      Comunque concordo: oggi di muse operanti se ne vedono poche!

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