Lo "Stilnovo popolare" di Caproni

Uno dei motivi del fascino che la letteratura esercita su di noi è legato alla sedimentazione della tradizione, all'evolversi di temi e modi espressivi, al continuo alternarsi, nel tempo e nello spazio, di momenti di sperimentazione e di fasi di recupero devoto di stilemi e contenuti. Studiando un ramo della letteratura italiana che ho poco frequentato all'Università ho fatto conoscenza con Giorgio Caproni (1912-1990) che, nonostante l'esordio contemporaneo al grande filone ermetico (o «novecentista», come lo definisce Pasolini), si dedica ben presto ad una poesia popolare e narrativa in antitesi rispetto all'Ermetismo stesso.
In Battendo a macchina, Caproni afferma che la poesia deve essere «fine e popolare» come fu sua madre, «tutta storia / gentile, senza ambizione». E proprio la madre del poeta, Anna Picchi, diventa la musa di una poesia che, pur nella sua modernità, nel solco di quella linea quotidiana e realistica della poesia che ha in Umberto Saba il suo rappresentante principale, resuscita stilemi propri di uno dei primi movimenti della storia letteraria italiana: il Dolce Stil Novo.

La gente se l'additava

Non c’era in tutta Livorno
un’altra di lei più brava
in bianco, o in orlo a giorno.
La gente se l’additava
vedendola, e se si voltava
anche lei a salutare,
il petto le si gonfiava
timido, e le si riabbassava,
quieto nel suo tumultuare
come il sospiro del mare.
Era una personcina schietta
e un poco fiera (un poco
magra), ma dolce e viva
nei suoi slanci; e priva
com’era di vanagloria
ma non di puntiglio, andava
per la maggiore a Livorno
come vorrei che intorno
andassi tu, canzonetta:
che sembri scritta per gioco
e lo sei piangendo: e con fuoco.

Il testo, dedicato alla madre, sembra una vera e propria lode della donna e può essere confrontato con il più noto esempio di lode stilnovista: Tanto gentile e tanto onesta pare, il sonetto tratto dalla Vita nuova dove è descritto l'andar per via di Beatrice che, come Anna, è osservata con ammirazione, eppure manifesta un'umiltà che esalta ancor più la sua bellezza e la sua grazia:

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.

I due testi sono destinate a due tipologie di donne distinte, una madre e un'amata, ma gli effetti che la sua vista suscita sono molto simili e raffrontabili anche a livello terminologico: la Firenze di Dante è sostituita dalla vicina Livorno e Anna Picchi, come «quella ch'è sul numer de le trenta» (dietro questa formula si cela Beatrice nel sonetto Guido, i'vorrei che tu e Lapo ed io, v. 10), è ammirata per le sue doti che, molto laicamente e realisticamente, sono legate all'abilità nel cucito. Come Beatrice, Anna cammina rispondendo ai saluti con orgoglio e fierezza, ma senza presunzione e il «benignamente d'umiltà vestuta» si traduce nel moto del petto che si alza e si abbassa come l'onda del mare.

Pierre-Auguste Renoir - Aline Charigot and Renoir (1880)

Anna, per il suo figlio-poeta, è come la donna angelo degli stilnovisti, «va per la maggiore»: la donna non è solo un punto di riferimento per Giorgio, ma è apprezzata da tutti, come una vera e propria regina della quotidianità, ma non per questo meno degna di elogio. Anche quello «spirito soave pien d'amore» che chiude la terzina del sonetto dantesco sembra evocata nei versi di Caproni, laddove il poeta parla della madre come una creatura «dolce e viva / nei suoi slanci». 
Non meno stilnovista è la conclusione del brano novecentesco: quella di rivolgersi alla propria poesia chiamandola «canzone» o «canzonetta» è una pratica molto diffusa nei componimenti medievali (si veda Dante, Rime, 46 CIII, 79 e Petrarca, Canzoniere CXXVIII, 113) e serve a comunicare al lettore il desiderio che quanto scritto sia il più possibile divulgato, in questo caso per diffondere la lode di una donna che vi è celebrata quasi in modo giocoso, ma in realtà con un profondo affetto.

C.M.

Commenti

  1. La critica ritiene che "quella ch'è sul numer de le trenta" non sia Beatrice, indicata nella Vita nuova (VI) al nono posto tra le più leggiadre donne fiorentine.

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