Calvino legge Levi

Il 6 maggio 1948 Italo Calvino pubblica sulle pagine de L'Unità la recensione di Se questo è un uomo, uno dei testi più significativi prodotti dalla terribile esperienza della Shoah. Oggi, nel ricordare con forza l'orrore di un evento disumano nella speranza che serva a sottrarlo a quell'oblio che finirebbe per giustificarlo in silenzio, voglio proporvi il suo pezzo, che, nella sua essenzialità, rende bene quella del romanzo. Calvino, come sempre abile nella lettura e nella presentazione dei testi, evidenzia il valore di canto disperato della testimonianza di Primo Levi, un grido che implora di accettare e ricordare ciò che è stato laddove la mente, razionalmente, non potrebbe credere a simili atrocità.
UN LIBRO SUI CAMPI DELLA MORTE
"Se questo è un uomo"

C'era un sogno, racconta Primo Levi, che tornava spesso ad angustiare le notti dei prigionieri dei campi di annientamento: il sogno di essere tornati a casa e di cercare di raccontare ai famigliari e agli amici le sofferenze passate, ed accorgersi con un senso di pena desolata ch'essi non ascoltano, che non capiscono nulla di quello che loro si dice. Io credo che tutti gli scampati che abbiano provato a scrivere le loro memorie su quella terribile esperienza si siano sentiti prendere da quella pena desolata: di aver vissuto un'esperienza che passa i limiti del dicibile e dell'umano, un'esperienza che non potranno mai comunicare in tutto il suo orrore a nessuno, e il cui ricordo continuerà a perseguitarli con un tormento della sua incomunicabilità, come un prolungamento della pena.
Per fatti come i campi d'annientamento sembra che qualsiasi libro debba essere troppo da meno della realtà per poterli reggere. Pure, Primo Levi ci ha dato su questo argomento un magnifico libro (Se questo è un uomo, Ed. De Silva 1948) che non è solo una testimonianza efficacissima, ma ha delle pagine di autentica potenza narrativa, che rimarranno nella nostra memoria tra le più belle della letteratura sulla seconda guerra mondiale.
Primo Levi fu deportato ad Auschwitz al principio del '44 insieme col contingente d'ebrei italiani del campo di concentramento di Fossoli. Il libro si apre appunto con la scena della partenza da Fossoli (vedi l'episodio del vecchio Gattegno) e in cui già si sente quel peso di rassegnazione di popolo ramingo sulla terra da secoli e secoli che peserà su tutto il libro. Poi, il viaggio, l'arrivo ad Auschwitz, e altra scena di struggente potenza, la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini, di cui mai più sapranno nulla. Poi la vita del campo: Levi non si limita a lasciar parlare i fatti, li commenta senza forzar mai la voce e pure senza accenti di studiata freddezza. Studia con una pacatezza accurata cosa resta di umano a chi è sottoposto a una prova che di umano non ha nulla.
Null-Achtzen, «zero-diciotto», il suo compagno di lavoro che ormai è come un automa che non reagisce più e marcia senza ribellarsi verso la morte, è il tipo umano cui i più si modellano, in quel lento processo d'annientamento morale e fisico che porta inevitabilmente alle camere a gas. Suo termine autentico è il «Prominenten», il privilegiato, l'uomo che si «organizza», che riesce a trovare il modo di aumentare il suo cibo quotidiano di quel tanto che basta per non essere eliminato, che riesce ad acquistare una posizione di predominio sugli altri e vivere sulla rovina altrui; tutte le sue facoltà sono tese ad uno scopo elementare e supremo: sopravvivere.
Le figure che Levi ci disegna sono dei veri e proprii personaggi con una compiuta psicologia: l'ingegner Alfred L., che continua a mantenere tra i compagni di sofferenze la posizione di predominio che ha sempre tenuto nella vita sociale, e quell'assurdo Elias, che sembra nato dal fango dei Lager e che è impossibile immaginare come un uomo libero, e quell'agghiacciante personaggio del dottor Pannwitz, personificazione del fanatismo scientifico del germanesimo. Certe scene raccontate dal Levi ci ricostruiscono tutta un'atmosfera e un mondo: il suono della banda musicale che accompagna ogni mattina i forzati al lavoro, fantomatico simbolo di quella geometrica follia; e le notti angosciose nella stretta cuccetta, coi piedi del compagno vicino al volto; e la terribile scena della scelta degli uomini da mandare alle camere a gas, e quella dell'impiccagione di chi, in quell'inferno di rassegnazione e di annientamento, trova ancora il coraggio di cospirare e resistere, con quel grido sulla forca: «Kamaraden, ich bin der Letzte!». Compagni, io sono l'ultimo.

Italo Calvino, L'Unità, 6 maggio 1948

Ricordare la Shoah e gli abomini che essa ha generato e avuto come contorno è un dovere e lo sarà sempre di più, col progressivo allontanarsi dai fatti: sappiamo bene quanto sia facile essere distaccati nei confronti di eventi lontani. Ma dobbiamo sforzarsi di corrodere questa inevitabile distanza, non dobbiamo assumere, rispetto alle atrocità del secolo scorso e, in particolare, a questa sanguinosa esperienza di discriminazione e sterminio, un'apatia che finirebbe per renderci indifferenti e incapaci di comprenderne l'assurdità. 
Mi è capitato, parlando della Shoah in classe, di assistere a nauseanti reazioni di totale disinteresse da parte di alcuni studenti, che, mentre descrivevo i numeri e i luoghi della strage, preferivano intrattenersi in battute, scherzi e atteggiamenti vari da circo. E non è un atteggiamento dei soli adolescenti: i testimoni delle ondate di morte del Novecento stanno diminuendo sempre più, le famiglie stesse cominciano a essere prive del legame con quel passato costituito dalle generazioni più anziane e il ricordo svanisce, portando con sé una dilagante indifferenza. Abbiamo libri, abbiamo film, abbiamo documentari, abbiamo archivi pieni di attestazioni del disumano che ha posseduto per anni l'Europa e il mondo, eppure il pericolo della rimozione è lì, dietro l'angolo. E rimuovere il proprio passato significa rimuovere la propria identità e consegnarsi ad un vuoto che non può che produrre, più o meno direttamente, nuove crudeltà e che disgrega fatalmente la coscienza stessa.

Il pezzo originale
 
C.M.

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