Il multiforme Ulisse: il ritratto dantesco

Fra gli eroi della mitologia antica, quello che gode di maggior notorietà e fortuna culturale è senza dubbio Ulisse, figlio di Laerte e Anticlea e re della piccola isola di Itaca, nonché protagonista di uno dei due poemi tramandati sotto il nome di Omero. Il personaggio letterario è divenuto simbolo dell'ingegno e del valore umano, un modello di un homo novus capace di contrapporre alla vis bellica l'uso della ragione, dell'arguzia e anche dell'inganno.

William Blake, Inferno XXVI (1824 ca.)
A partire dall'età medievale il personaggio di Ulisse si è caricato di nuovi significati e si è innescato a suo carico un processo di moltiplicazione di valori e simbologie che hanno il suo fulcro nel canto XXVI dell'Inferno dantesco, dove, per la prima volta, l'eroe omerico si sintonizza e si fonde con il sistema valoriale cristiano e occidentale. La sua storia, di conseguenza, si arricchisce di sfumature che, pur non contemplate dal contesto originario per ovvie questioni di distanza culturale, rendono conto dell'immensa capacità del mito di adattarsi alle civiltà che lo recepiscono o ai suoi singoli rappresentanti in luoghi ed epoche diverse (fenomeno non esente da erronee semplificazioni).
Ritenuto uno dei passi più emozionanti e intensi della Commedia, l'incontro di Dante con Ulisse nella bolgia dei consiglieri fraudolenti (l'ottavo settore dell'ottavo cerchio) è diventato il simbolo della grandezza umana e della tenacia con cui il desiderio di conoscenza umano sfida tutti i limiti posti dal Fato. Ulisse, certo, è un peccatore e sta anche piuttosto vicino al cuore della voragine infernale, tuttavia è fuori di dubbio che, nei suoi confronti, Dante manifesti una sorta di ammirazione, al punto da scegliere come oggetto del canto la narrazione non dei misfatti per i quali è condannato, bensì degli eventi e del gesto che lo hanno condotto alla morte. La beffa dell'isola di Sciro per far emergere l'indole guerriera di Achille, confinato dalla madre fra le figlie di Nicomede per essere sottratto alla guerra, il furto del Palladio perpetrato assieme a Diomede e l'inganno del cavallo sono rapidamente citati da Virgilio in ordine inverso rispetto a quello degli eventi nei vv. 58-63, al momento della presentazione dei due peccatori avvolti dalla fiamma a due lingue; ben più lunga e particolareggiata è la narrazione dell'ultimo viaggio di Ulisse, che si estende dal v. 85 al 142, cioè fino alla conclusione del canto.
L'Ulisse di Dante è diverso dall'Ulisse di Omero: è un personaggio estremamente moderno, il cui spirito pagano si scontra con il sistema cosmico ordinato da Dio e che, tuttavia, è come sottratto al giudizio di Dante, così da risultare quasi uno spirito magno mancato, un ospite rubato al meraviglioso castello che sorge nel Limbo, laddove risiede lo stesso Virgilio. Ulisse non è, nell'economia del canto XXVI, un consigliere fraudolento, bensì un'anima indomita, insofferente ai limiti, desiderosa di contemplare i misteri del mondo e di porsi alla pari della divinità, svelando ogni segreto del creato. 
Virgilio, nell'interrogare Ulisse in vece di Dante, gli chiede esplicitamente di descrivere gli ultimi momenti di vita e le cause della morte, senza porre l'attenzione sui peccati dell'eroe; il silenzio che cala sulle parole del re di Itaca sottrae lo spazio a qualsiasi considerazione etico-religiosa e Ulisse esce di scena come una creatura nobile, sulla quale non pende alcuna condanna. Ulisse, del resto, ha, nel suo peccato di frode, una funzione provvidenziale: se Troia non fosse caduta, Enea non avrebbe mai lasciato la patria e non si sarebbe stabilito nel Lazio; di conseguenza, non sarebbero nati il popolo e l'impero romano che per Dante sono strumenti fondamentali per la germinazione e la diffusione del cristianesimo. Ulisse, inoltre, rappresenta Dante, è una sorta di suo alter-ego: a legare i due personaggi è l'eco dell'aggettivo folle che Dante pronuncia nel canto II («temo che la venuta non sia folle») esprimendo il timore che il suo viaggio sia superbo e quasi sacrilego e che è usato per qualificare l'impresa di Ulisse sia in Inf. XXVI 125 («de'remi facemmo ali al folle volo») sia in Par. XXVII 82-83 («sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse»). Dante nell'intraprendere il suo eccezionale viaggio e nel penetrare i segreti della Giustizia divina e Ulisse nell'eccedere i limiti delle colonne d'Ercole e nel suo desiderio di contemplare quella montagna bruna che non sa essere il Purgatorio affrontano un'impresa folle, ardimentosa, che supera le facoltà umane. Ma, come ricordano Umberto Bosco e Giovanni Reggio, mentre Ulisse si getta in questa azione titanica senza l'ausilio e la legittimazione di Dio, Dante, attraverso Virgilio (mandato da Beatrice per volontà di Santa Lucia e della Vergine stessa, somma mediatrice fra Dio e l'uomo), trasforma la sua folle venuta in un atto di Grazia. E, tuttavia, non riesce forse a condannare il desiderio naturale di Ulisse di aver desiderato anticiparlo in quel grande passo e a liberarsi del tutto della sensazione di trascendere un limite sacro, un timore di cui sono sintomo i continui dubbi che il pellegrino manifesta nel corso del poema. Così si spiega anche l'interpretazione di Borges dell'atteggiamento di Dante: «Per questo il personaggio di Ulisse ha la forza che ha, perché Ulisse è un specchio di Dante, perché Dante sentì che forse anche lui avrebbe meritato un simile castigo. Aveva scritto il poema, ma aveva anche infranto le misteriose leggi della notte, di Dio, della Divinità.»
Venendo alla costruzione narratologica dell'episodio del canto XXVI, va detto che il personaggio dantesco è figlio della tradizione medievale che, in ossequio ad alcune osservazioni di Cicerone, Orazio e Seneca, vede in Ulisse il simbolo dell'ardore di conoscenza. Egli è per gli autori latini esempio di saggezza non piegata dalla fatica e dalla paura (Sen. De constantia sapientis II, 2) e significativo esempio del potere della virtù e della fortuna («quid virtus ed quid sapientia possit, utile proposuit nobis exemplar Ulixen», Or. Ep. I, 2 vv. 17-18). Sottile è il confine fra la curiositas degli sciocchi e la virtus del saggio, ma è Aristotele a legittimare una lettura non peccaminosa della ardore di conoscenza di Ulisse, che è segno della naturale propensione alla razionalità che distingue l'uomo dagli altri animali. Sempre aristotelica è la base della comunione di sapere che Ulisse vuole stabilire con i compagni che esorta con le sua famosa orazion picciola dei vv. 112-120:
'O frati,' dissi, 'che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza'.
Ulisse sa di appartenere ad una comunità che, sulla nave che lo conduce alla morte, è rappresentata dalla piccola compagnia di marinai: è un animale politico, che condivide con una società di esseri umani tutto ciò di cui dispone. E ciò di cui dispone è il desiderio di conoscere il mondo. I compagni che nell'Odissea appaiono stolti ed eccedono alla curiositas quando, contro il divieto del loro re, aprono l'otre dei venti di Eolo o uccidono le vache sacre del Sole sono qui trasfigurati in adepti di un individuo votato alla conoscenza.

Ulisse e le Sirene, mosaico del Museo del Bardo di Tunisi (III sec.)

Che Dante plasmi il suo Ulisse a immagine e somiglianza di quello oraziano, qualificandolo come esempio di virtù, è evidente anche dal sistema delle rime e degli enjambement nei vv. 95-99; osserviamo l'attacco del discorso dello spirito a partire dal v. 90:
(...) "Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
La connessione, attraverso la rima, delle parole-chiave amore-ardore-valore rappresenta la connotazione positiva del gesto di Ulisse, che risulta eccessivo solo perché non sostenuto dalla Grazia di Dio alla pari di quello di Dante.
Oltre che per i giudizi etico-filosofici su Ulisse, Dante è debitore ai Latini anche delle notizie sulle avventure dell'eroe. Dante conosce le vicende di Ulisse in maniera indiretta, grazie a commenti, a stralci di traduzione e aneddoti tramandati da autori latini, e a quanto dei fatti iliadici viene narrato da Enea nel libro II del poema virgiliano e all'Achilleide di Stazio (autore latino che sarà guida di Dante per una parte del suo cammino in Purgatorio). Eppure il finale alternativo che egli assegna all'eroe dal multiforme ingegno non è del tutto incompatibile con il poema omerico, anzi, ne riprende un particolare non sempre preso in debita considerazione.
Il libro XI dell'Odissea narra la catabasi di Odisseo che, su indicazione di Circe, si reca nell'aldilà per consultare lo spirito dell'indovino Tiresia e conoscere il proprio destino una volta che si sarà rimesso in mare. L'episodio è il modello diretto del viaggio di Enea nell'Averno nel canto VI dell'Eneide al quale si ispira a sua volta Dante per la scrittura del proprio poema. Nei vv. 118-137 l'indovino pronuncia questa profezia:
Ma, tornato, tu punirai la loro violenza:
e quando, nelle tue case, hai sterminato i pretendenti,
con l’inganno o a fronte con l’aguzzo bronzo,
prendi allora il maneggevole remo e va’,
finché arrivi da uomini che non sanno
del mare, che non mangiano cibi conditi col sale,
che non conoscono navi dalle gote purpuree
né i maneggevoli remi che sono per le navi le ali.
E ti dirò un segno chiarissimo: non potrà sfuggirti.
Quando un altro viandante, incontrandoti,
dirà che tu hai un ventilabro sull’illustre spalla,
allora, confitto a terra il maneggevole remo
e offerti bei sacrifici a Poseidone signore,
un ariete, un toro e un verro che monta le scrofe,
torna a casa e sacrifica sacre ecatombi
gli dei immortali che hanno il vasto cielo,
a tutti con ordine. Per te la morte verrà
fuori dal mare, così serenamente da coglierti
consunto da splendente vecchiezza: intorno avrai
popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio.
Che le imprese di Ulisse non si concludano con la strage dei Proci è ben noto, ma le notizie sulla sua morte sono contrastanti: alcune tradizioni ne testimoniano la morte per vecchiaia, altre per mano del figlio avuto da Circe, Telegono. Un dato interessante, se non altro come curiosa suggestione, è che le parole qui tradotte con «fuori dal mare» (o «lontano dal mare») sono traducibili anche come un complemento di causa efficiente «dal mare / ad opera del mare», in quanto l'espressione greca ἐξ ἁλὸς può essere resa in entrambi i modi: Ulisse, dunque, sarebbe morto o sulla terraferma o a causa di un naufragio. I filologi si dividono in merito a questa interpretazione e, anche se illustri studiosi come Alfred Heubeck e William Bedell Stanford propendono per l'interpretazione «lontano dal mare» sulla scorta dell'associazione di questa formula con l'aggettivo ἀβληχρὸς («debole / non violento»), l'analisi comparativa delle occorrenze omeriche di ἐξ ἁλὸς (di cui rende conto, per esempio, Bruce Louden nel libro Homer's Odissey and the Near East) hanno dimostrato che essa è maggiormente usata nell'accezione (sostenuta peraltro da Martin West) di «dal mare», ad indicare l'emersione di Teti o di Poseidone dal mare. Dante, inconsapevolmente, avvalora questa seconda possibilità.
Ciò che risulta invece incongruente o ambiguo rispetto al racconto omerico è il momento in cui si colloca la vicenda dell'Ulisse dantesco. Dal racconto emerge che l'eroe e i suoi compagni, al momento di varcare le Colonne d'Ercole, sono vecchi e tardi (v. 106) e si può dunque dedurre che siano rimasti in mare ben più dei dieci anni tradizionalmente calcolati dalla fine della guerra di Troia. Dante sembra escludere che quello di Ulisse sia un nuovo viaggio intrapreso anni dopo quello dell'Odissea, poiché fa intendere che il re di Itaca e il suo equipaggio hanno affrontato insieme moltissimi pericoli (vv. 112-113), eppure tradisce la sua incompleta conoscenza del poema, poiché è risaputo che Odisseo rientra ad Itaca da solo e che tutti i suoi compagni partiti con lui da Troia muoiono per incidenti di navigazione o di altro genere, per lo scatenarsi di qualche forza divina o di morte violenta: i pochi che sopravvivono a Polifemo, a Scilla e alle altre creature minacciose vengono inghiottiti assieme all'ultima nave dal gorgo fatale di Cariddi.
Un ultimo dato merita attenzione nel ritratto dantesco di Ulisse, sia per la bellezza stilistica del tessuto del canto sia per l'ulteriore carica che offre alla drammatica morte dell'eroe. Il discorso di Ulisse costituisce uno dei momenti più elevati dell'intero Inferno anche a livello retorico: fin dalla sua introduzione attraverso i versi 85-90 le parole dello spirito dannato sono circondate dalla forza degli elementi naturali che si scatenano sull'eroe.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: 'Quando
Gustave Doré, Inferno XXVI (1861)
Ulisse appare avvolto da una fiamma che pare battuta dal vento che tenta di spegnerla, quello stesso vento che spinge la nave e al quale, metaforicamente, vengono affidati i remi fatti ali. Sembra il preannunciarsi della tempesta che sorge nella conclusione con il turbine che nasce fra le onde; le tempeste marine sono generate dallo scontro di correnti d'aria o da maremoti ed è significativo ricordare che, secondo la fisica medievale, come testimonia la chiusa del canto III dell'Inferno («La terra lagrimosa diede vento», vv. 133), i fenomeni sismici sono causati da vortici d'aria sotterranei. Il vento e il mare, dunque, costituiscono il sottofondo stilistico della seconda parte del canto, il primo infondendo il proprio sibilo nel tessuto fonico dei vv. 90-93 (affatica, fosse, parlasse, disse, sottrasse, presso, nomasse) e dei vv. 127-132 (basso, surgea, suolo, racceso, casso, passo), nel momento di apparente quiete in cui appaiono le stelle dell'emisfero australe e vengono descritti l'alternarsi del dì e della notte; il secondo determinando l'andamento ondeggiante ottenuto attraverso il ricorrere degli enjambement a partire dal quando che addirittura sospendo sul nascere il discorso di Ulisse e per tutto il discorso («sottrasse / me» vv. 91-92; «pieta / del vecchio padre» 94-95; «compagna / picciola» vv. 101-102; «cento milia / perigli» vv. 112-113; «vigilia / d'i nostri sensi» vv. 114-115; «tutte le stelle già de l'altro polo / vedea la notte» vv. 127-128; «bruna / per la distanza» vv. 133-134) fino alla chiusura, che conferisce solennità e drammaticità alle parole dell'eroe, traducendo l'angoscia del navigatore in balia delle onde.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso'.
Questo è il ritratto dantesco di Ulisse, del quale sono stati messi in luce soprattutto i rapporti con i modelli antichi. I versi dell'Inferno, tuttavia, hanno moltiplicato l'eco dell'avventura dell'eroe omerico, affidandone i nuovi risvolti alla letteratura moderna e contemporanea, in un percorso che continueremo insieme.

C.M.

Commenti

  1. Ciao! Bellissimo post dedicato ad una figura così affascinante che nemmeno Dante si è sentito di condannare. Personalmente sono molto affezionata al personaggio di Ulisse, perché ho fatto la Tesi della Laurea Magistrale su una versione contemporanea del suo mito, intitolata "Odyssey". Secondo me Ulisse è proprio un simbolo dell'uomo, con tutte le sue virtù ed i suoi vizi.

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    1. Proprio così, e credo che Dante sia stato fondamentale nella trasmissione delle peculiarità del personaggio, che certamente conosciamo meglio di tante altre figure che non hanno avuto lo stesso successo nonostante premesse omeriche altrettanto buone... il poeta fiorentino ha saputo cogliere aspetti affascinanti della sua figura pur non conoscendola direttamente, forse perché, in fondo in fondo, quella della musa ispiratrice non è soltanto una bella formula letteraria.

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